mercoledì 2 agosto 2017

TRASLOCO - TRANSFER - ПЕРЕНОС

Cari lettori,

questo blog, dopo 4 anni, ha terminato la sua vita.
Mi sono trasferita nel mio nuovo blogsite, che è un misto di blog e sito.
Qui troverete tutte le informazioni su di me e qualche mia traduzione di articoli inerenti i miei interessi.
Spero di incontrarvi numerosi sulla nuova piattaforma.
A presto.
Elena



Dear readers,
this blog has come to an end after 4 years of life.
I moved to my new blogsite, a mixture of blog and site.
Here you will find information about me and my translations of articles regarding my interests.
I hope to see you soon on the new platform.
Elena


 

Дорогие читатели,  
жизнь этого четырёхлетнего блога закончилась. Но все его содержания живут дальше в другом месте.
Смотрите, я переехала в мой новый блогсайт, смесь блога и сайта.
Здесь вы найдёте информации обо мне и мои переводы статьей о моих интересах.
Надеюсь встретить вас много на новой платформе.
Пока
Элена

giovedì 27 luglio 2017

Una fonte d'ispirazione

Oggi ho approfondito il metodo di lavoro di questo bravissimo traduttore tecnico:
Roberto Crivello.

Ho deciso che sarà il mio modello da seguire per la traduzione tecnica. Come si legge dal sito, ha una lunga esperienza in vari settori produttivi e può anche dare consigli su errori da evitare.

Come in quest'intervista molto interessante che gli ha fatto Luisa Carrada, professionista delle parole e della comunicazione aziendale.

Posso dire che per oggi ho avuto la mia dose di aggiornamento.

Alla prossima!


mercoledì 26 luglio 2017

WordLo: Come smettere di essere pagati a parola ma nei nos...

Condivido questo articolo di Maria Pia Montoro perché è quello che penso da tempo, ma pensavo di essere pazza, visto che le tariffe sono a parola.

Invece dovrebbero essere a tempo!

WordLo: Come smettere di essere pagati a parola ma nei nos...: Da tempo sui Social come Facebook e Twitter, i traduttori si stanno schierando contro un meccanismo che li spinge ad accettare lavori sotto...

lunedì 20 aprile 2015

Viaggiate con me nel fumetto russo


I fumetti si leggono o si guardano?


08.05.2013


da Artgid – rivista d'arte russa online


Dmitrij Jakovlev, organizzatore del Festival del fumetto “Boomfest” di San Pietroburgo e direttore della casa editrice “Boomkniga”, e Varvara Pomidor, autrice di fumetti, ci parlano del fumetto, delle sue origini storiche e del perché le gallerie di arte contemporanea non amano i fumettisti.



Siamo in compagnia di Dmitrij Jakovlev e Varvara Pomidor nella biblioteca del fumetto di San Pietroburgo. Questa biblioteca, creata dalla collezione di Jakovlev, si trova negli spazi della biblioteca di quartiere. Dal 2007 qui a San Pietroburgo si svolge ogni anno il festival internazionale del fumetto “Boomfest”, nel 2008 è stata fondata la casa editrice “Boomkniga”, che si occupa esclusivamente di fumetti. Si è appena concluso il salone del libro di San Pietroburgo, che ha dato ampio spazio alle presentazioni dei fumetti di Boomkniga. Sembra tutto perfetto. Ma in quale ambito si muove il fumetto? È parte della letteratura o parte dell'arte visiva? Nel mondo dell'arte non ha ottenuto uno status importante, anche per il mondo dell'editoria è un prodotto marginale, ciononostante un'ampia fetta di pubblico lo adora. Di questa “zona di confine”, in cui si trova il fumetto, dialoga con l'artista e l'editore la giornalista Anna Matveeva.


Copertina del libro di Varvara Pomidor “Non abbiamo detto una parola”. 2010


Anna Matveeva: Fino a qualche anno fa qualsiasi articolo sul fumetto esordiva con una frase tipo: “Il fumetto è un fenomeno esotico per la Russia, non abbiamo una tradizione del fumetto.” Tuttavia dalla metà degli anni 2000 il nostro paese sta vivendo un vero boom del fumetto. Si pubblica, si legge, si disegna, su internet ci sono intere community di appassionati che traducono e pubblicano fumetti. Perchè d'un tratto il fumetto è così vicino al cuore dei russi?


Varvara Pomidor: Forse, perché le persone sono sempre attratte dalle novità...


Dmitrij Jakovlev: … specialmente se questa novità rappresenta qualcosa di vecchio ben dimenticato. Perchè ai tempi dell'Unione Sovietica avevamo una tradizione del fumetto che era abbastanza attiva. Sia i bambini che gli adulti leggevano fumetti. C'erano alcune riviste molto famose, come “Čiž”, “Ež”, “Begemot”, “Krokodil”. Servendosi delle caricature, “Begemot” e “Krokodil” pubblicavano storie satiriche disegnate. Poi i russi hanno iniziato a viaggiare nei paesi occidentali, hanno visto che rapporto c'è lì con il fumetto e ciò ha influenzato il loro interesse.


Dmitrij Jakovlev, organizzatore del festival del fumetto Boomfest e direttore della casa editrice Boomkniga



A.M.: E lì che rapporto hanno col fumetto?


D.J.: Innanzitutto, il fumetto lì fa parte della cultura del libro. In secondo luogo, non è raro che sia parte della cultura nazionale, e che sia un filone alquanto serio. In modo particolare, in Giappone, negli Stati Uniti, in Francia e in Belgio il fumetto è una vera e propria cultura nazionale, esportata molto attivamente. Per la cultura di questi paesi il fumetto è alla stregua di qualsiasi opera letteraria. E, come in qualsiasi genere artistico, sia esso letteratura, cinema o teatro, nel loro fumetto ci sono il mainstream e le correnti alternative.


Varvara Pomidor, artista e autrice


A.M.: Com'è arrivato il fumetto in Russia? Tramite internet, con il lavoro di volenterosi traduttori che hanno tradotto le strisce?


D.J.: Le strisce, sì, da noi sono arrivate grazie a internet. Ma bisogna capire che il fumetto da noi esisteva già anche sotto il potere sovietico, che lo considerava un fenomeno della cultura borghese. C'erano anche fumetti in traduzione. Formalmente quelli di Jean Effel e Herluf Bidstrup si possono collocare nel genere del racconto disegnato. Alla fine degli anni '80 grazie al giornale “Večernaja Moskva” si costituì un gruppo di artisti che si chiamava “Komiks-studija KOM”, che facevano fumetti e li stampavano con tirature di 100-200 mila copie ciascuno. Erano pubblicati sia all'interno del giornale, che in edizioni a parte. Ora tirature simili ce le sognamo.


Due pagine del libro di Jean Effel “La creazione del mondo. Raccolta di disegni umoristici su temi biblici”. M., Izobrazitel'noe Iskusstvo ed., 1989


Contemporaneamente, a Ufa (capitale della Repubblica di Baškortastan, parte dell'Urss e ora della Federazione Russa, n.d.t.) all'inizio degli anni '90 iniziò la sua attività la rivista “Muha”, anch'essa con tirature da centomila copie. Tutti gli appassionati di fumetto sanno cos'è “Muha”: per loro è una leggenda, la rivista dell'adolescenza, il primo amore. Verso la metà degli anni '90 tutte queste iniziative si spensero, è evidente che accadde in concomitanza con i cambiamenti in corso nel mercato editoriale del nostro paese: a quel tempo si ridussero molto le quantità di libri stampati e molti editori dovettero chiudere, ma in quello stesso periodo furono create alcune piccole iniziative che tentavano di sopravvivere da sole. La casa editrice “Mahaon”, fondata nel 1993, oggi una delle più grandi nella letteratura per l'infanzia e parte della holding “Attikus”, ha iniziato proprio con i fumetti per bambini. Nel complesso, negli ultimi 23 anni, ovvero da quando esiste la Russia contemporanea, il fumetto russo in un modo o nell'altro c'è stato e viene pubblicato in buone tirature, e con esso qualcuno si è anche arricchito.


Askol'd Akišin. La verità dei pionieri. 2011. Courtesy del Festival Internazionale di storie disegnate “Boomfest”. Copyright dell'autore


A.M.: Si è appena concluso il salone del libro di San Pietroburgo, dov'era presente anche la casa editrice “Boomkniga”. I grandi lettori come percepiscono il fumetto?


D.J.: Molte persone guardano i nostri libri, li aprono e li chiudono, ma non li capiscono: per loro è difficile comprenderli. Può darsi che questo problema sia legato all'enorme patrimonio letterario russo che pesa su di noi. Si è abituati a pensare che i libri siano quelli di Dostoevskij, Tolstoj e qui invece ci ritroviamo delle immagini. Ma sono sicuro che nei saloni, e non solo in quello di San Pietroburgo, il pubblico sia molto interessato ai fumetti per l'infanzia, che però mancano in Russia. Ciò rappresenta un problema. Tutti i libri che pubblichiamo noi sono dedicati a un pubblico dai 15 anni circa in su. Questo complica il percorso verso il lettore. Di solito va così: da bambino inizi a leggere fumetti, e loro crescono con te. Ma è difficile iniziare a leggere fumetti a 30 anni.


V.P.: Ho fatto queste domande ai francesi, gente cresciuta insieme al fumetto. Il fumetto attira su di sé interesse proveniente dal libro tradizionale? Idealmente è più facile leggere un fumetto, ha molte immagini e poco testo. Ma per i francesi tale questione non si pone. Così come nella letteratura ci sono poesia, prosa, drammaturgia, vi trova posto a pieno titolo anche il fumetto, che è un altro modo di raccontare una storia.


Varvara Pomidor. Bosco russo. Courtesy del Festival Internazionale di storie disegnate “Boomfest”. Copyright dell'autore
 
A.M.: Ci racconti la sua storia, ci racconti come sono nati il festival e la casa editrice.


D.J.: All'inizio ci fu il festival. Una decina d'anni fa mi avvicinai al fumetto tramite la letteratura francese e, più in generale, la cultura francese, in un momento in cui ero molto in contatto con persone francofone, soprattutto giovani canadesi. Mi fecero vedere dei fumetti e per me fu una grande scoperta. Quando iniziai a interessarmi più seriamente a questo mondo, venni a sapere che a Mosca c'era un festival dei fumetti, feci conoscenza con gli artisti che li disegnavano. Nel 2005 andai in Francia a un festival del fumetto e fui molto colpito. Presi a organizzare mostre con amici artisti. A un certo punto capimmo che bisognava fare il festival. Nel 2007 andammo a vivere tutti insieme in un appartamento in condivisione per organizzare il primo festival. Non si può dire che in Russia allora ci fosse un gruppo consistente di artisti da esporre, perciò ci venne voglia di fare un festival internazionale, esporre non solo le nostre poche cose, ma anche far vedere che il fumetto è parte della cultura mondiale e presentare le sue diverse manifestazioni in paesi diversi.
Un progetto importante a quel tempo fu la mostra della serie di fumetti dei Moomin (piccoli troll) creati da Tove Jansson e dal fratello Lars Jansson; ora i fumetti di Tove Jansson sono pubblicati dalla casa editrice “Zangavar”, e anche “Boomkniga” ha pubblicato suoi fumetti passati. Più tardi ci siamo accorti che il fumetto rappresenta un segmento abbastanza grande del mercato, che contiene molti generi diversi, che a me interessa, per esempio, quello che si può definire fumetto d'autore o alternativo, invece i “personaggi in calzamaglia” non m'interessano. Su queste basi abbiamo formato un catalogo molto curato. Intorno al 2008 abbiamo capito di avere qualcosa da pubblicare, allora è nata la casa editrice.



Tove Jansson. I Moomin e la fine del mondo. 2011. Courtesy “Boomkniga”. Copyright dell'autore


A.M.: Come vengono selezionati gli autori per il festival?


D.J.: In modo soggettivo. Ci riuniamo e parliamo di che genere di autori vorremmo esporre. Non accettiamo autocandidature, ma c'è solo un'eccezione: organizziamo un concorso per giovani autori, a cui l'artista può presentare i propri lavori, il vincitore viene premiato con una mostra personale all'interno del festival. L'anno scorso in questo modo abbiamo portato un artista giapponese. Quest'anno portiamo un'artista di Har'kov.


Ol'ga Štonda. Lafumyč. 2012. Courtesy del Festival Internazionale di storie disegnate “Boomfest”. Copyright dell'autore

A.M.: Queste persone sono per lo più autodidatti oppure hanno una formazione artistica? Arrivano al fumetto tramite la grafica tradizionale oppure seguendo le riviste del settore?

D.J.: La maggior parte, circa il 70 per cento, ha una formazione artistica. Tuttavia il nostro vincitore giapponese dell'anno scorso è un autodidatta. Invece la vincitrice di quest'anno, Ol'ga Štonda, sta concludendo gli studi in grafica editoriale a Har'kov, dove c'è una straordinaria scuola di grafica. Senza dubbio ci sono alcuni artisti che disegnano senza aver avuto nessuna formazione specialistica. Ad esempio Oleg Tiščenko con i suoi fumetti del gatto: abbiamo già lanciato il suo libro “Kot +1”. Oggi Oleg è sicuramente l'autore di fumetti russo più famoso.


Oleg Tiščenko. Dalla serie “Kot”. Courtesy del Festival Internazionale di storie disegnate “Boomfest”. Copyright dell'autore

A.M.: Ma allora, il fumetto è una cosa da leggere o da guardare? Appartiene alla tradizione del libro o dell'arte? Da un lato voi pubblicate libri, partecipate ai saloni del libro, e ora siamo in una biblioteca. Dall'altro il festival ha luogo in spazi legati all'arte, è frequentato da un pubblico di artisti, adotta verso i fumetti un punto di vista artistico, li vede come se fossero grafica con delle scritte. Il vostro destinatario è un lettore o uno spettatore?

V.P.: Penso che ogni artista decida per sé stesso in autonomia. In effetti il fumetto è una commistione di letteratura e grafica. Per me è la grafica che viene sempre per prima. Quando guardo un libro, mi attira quella storia che riesco a leggere per immagini, che a volte sono più che sufficienti per la comprensione.

Georgij Litičevskij. Itakskaja SSR. 2007. Hudožestvennyj Žurnal, n.° 65/66

D.J.: All'opposto, c'è l'esempio di Georgij Litičevskij. Guardiamo i suoi enormi lavori dove usa elementi del fumetto: sono comunque delle immagini. Prendiamo la rivista “Hudožestvennyj Žurnal” dove sono pubblicati i suoi fumetti: questi bisogna leggerli e se non lo fai, non capisci nulla. Anche Goša Ostrecov utilizza nei suoi lavori elementi del fumetto, ma nei suoi non c'è un racconto nel vero senso della parola, invece il fumetto è sempre una storia disegnata che presuppone una narrazione. La narrazione può essere anche all'interno di un'immagine, ma puoi fare anche un libro, sviluppando il pensiero per mezzo delle pagine e delle due pagine attigue. In un modo o nell'altro tu sottintendi una trama, che bisogna leggere.

V.P.: Intendi dire “leggere il testo”?

D.J.: La storia, che può essere benissimo senza parole. Ma in ogni caso il fumetto è da leggere. Diversamente, succede ciò di cui ha parlato Varvara: quando entri in una libreria per scegliere un libro, ti concentri prima di tutto sul suo aspetto visivo e solo dopo, a casa, leggi la storia. La prima percezione è sempre data dalla parte grafica.




A.M.: In Russia, come vanno i rapporti del fumetto con la scena artistica?


D.J.: Le gallerie non ci vogliono un granché. Da noi ci sono un paio di gallerie, anche queste purtroppo non ci vogliono. Abbiamo avuto esperienza con due gallerie. Una volta con Anna Nova, ma l'artista era Georgij Litičevskij, quindi il suo nome e la sua reputazione hanno aiutato molto. La seconda volta fu la mostra di Viktoria Lomasko nella galleria ART re.FLEX nel 2011. Nel 2012 abbiamo tenuto lì la mostra dell'associazione degli illustratori “CEH”. Invece quest'anno, purtroppo, lì non ci saremo.


Viktoria Lomasko e Anton Nikolaev. Arte proibita. San Pietroburgo, Boomkniga, 2011. Pagina del titolo



V.P.: Mi sembra difficile definire Viktoria Lomasko una fumettista, anche se a lei piacciono le storie grafiche. Nell'arte contemporanea ci sono molte forme di espressione ibride simili a questa. Per esempio le mostre di Grigorj Juščenko. Si può considerarlo un fumettista? Lui stesso, beninteso, non si colloca per niente nel fumetto, anche se in lui è presente una base di fumetto, ovvero la storia disegnata.


D.J.: No, è tutto nello stesso mucchio, ma, ciononostante, c'è una rigida divisione: c'è la contemporary art (in inglese nell'originale, n.d.t.) e c'è chi disegna fumetti. Non ci sono molti che passano questo confine, e sentendosi anche pienamente a proprio agio. Le gallerie sono orientate verso i nomi: se vai da loro con Žora Litičevskij (Georgij Litičevskij), allora tutto bene. Žora disegna fumetti da non so quanto, ma è percepito come un artista che utilizza elementi del fumetto nell'arte contemporanea. C'è Jurij Aleksandrov, che si può portare nelle stesse gallerie di Litičevskij: è un artista che utilizza l'estetica del fumetto. Ma se si va in una galleria con Askol'd Akišin, allora ci saranno delle difficoltà, perchè, nonostante tutta la sua gloria nel mondo del fumetto, in quello dell'arte contemporanea lui non è nessuno. Negli ultimi cinque anni non c'è stata nemmeno una galleria che ha avviato di sua iniziativa una mostra di fumetti.
Askol'd Akišin. Anniversario. 2009. Courtesy del Festival Internazionale di storie disegnate “Boomfest”. Copyright dell'autore



V.P.: Insomma va a finire che i confini del fumetto e quelli dell'arte contemporanea rimangono comunque molto rigidi. E se vuoi fare una carriera con le gallerie, è importante che tu non ti definisca mai come fumettista!


D.J.: E allora, con quale nome definirsi?


V.P.: Beh... artista?

Varvara Pomidor. Non abbiamo detto una parola. 2008. Courtesy del Festival Internazionale di storie disegnate “Boomfest”. Copyright dell'autore





Articolo originale: Комиксы: читать или смотреть?
Traduzione di Elena Zanette ©

venerdì 3 aprile 2015

Auschwitz: un articolo da Novaja Gazeta, quotidiano indipendente russo


Indifferenza e tradimento 

Novaja Gazeta
22.01.2015


Settant'anni fa, il 27 gennaio 1945, i primi reparti dell'Armata Rossa salvarono i prigionieri sopravvissuti del campo di concentramento di Auschwitz (Oswiecim).


Auschwitz è solo uno dei numerosi lager, dove furono uccise milioni di persone. Ecco la domanda che non dà pace fino a oggi: è possibile che non si poté proteggerli?


Nel giugno 1942 Allen Dalles, l'allora presidente dello spionaggio politico americano in Svizzera, ricevette dalla sua fonte alcune informazioni sull'Olocausto: “La Germania non perseguita più gli ebrei. Li distrugge sistematicamente.” Ma a Washington il telegramma di Dalles fu accolto con scetticismo. Anche se le sue informazioni erano precise.
 

Che gli ebrei spariscano dalla faccia della terra”


Furono adottate particolari misure precauzionali, affinché nessun estraneo sentisse le parole del Reichsfuhrer delle SS Henrich Himmler, mentre informava i segretari di partito di un evento per lui gioioso: “A breve potrete rendervi conto che sul vostro territorio non ci sono più ebrei. La breve frase 'Gli ebrei devono essere eliminati' è facile da pronunciare. Ma coloro che devono metterla in pratica devono affrontare il compito più gravoso. Viene da chiedersi: 'Che fare con le donne e i bambini?' Io vi dico ciò che dovete sentire, ma che non avete il diritto di pronunciare a voce alta. La decisione è stata presa, che tutti gli ebrei spariscano dalla faccia della terra. Il mio dovere è quello di dirlo a voi, l'elite del partito. Ora sapete tutto. Tenetevelo per voi. Penso che sia più ragionevole, per tutti noi insieme, fare il nostro dovere e portarci questo segreto nella tomba...”


In realtà l'eliminazione degli ebrei come popolo non fu per niente un segreto. Troppe persone furono coinvolte, troppi furono i testimoni... E chi poté si arricchì sui morti.


Dopo la distruzione del ghetto di Varsavia vennero raccolti gli effetti personali dei morti. Gli orologi e i rasoi vennero utilizzati come regali per i soldati. Hans Frank, il generale governatore delle regioni polacche occupate, propose di distribuire 500 orologi a ogni divisione delle SS. E altri tremila darli ai marinai dei sommergibili tedeschi. Himmler acconsentì, voleva far piacere a Karl Doenitz, grandammiraglio e comandante in capo della flotta.


Uno di quei marinai tedeschi dopo la guerra raccontò il ritorno della loro nave da quella campagna militare. Sulla riva i marinai erano attesi da una grande scatola piena di orologi da polso. Ognuno di loro poteva sceglierne due a piacere. Videro che gli orologi erano usati, ma non ne furono turbati, era stato deciso di dare al fronte quei regali, raccolti dai volontari in tutta la Germania. Ma non appena si accorsero che alcuni orologi erano per i ciechi, capirono tutto: “Fu spaventoso. Ai nostri occhi fu chiaro di chi erano quegli orologi, e da quel momento nessuno di noi poté più dire di non sapere niente.”


Lavoratori d'assalto dei lager


Nel 1939 in Germania rimanevano circa duecentomila ebrei, per la maggior parte anziani. Dopo la conquista della Polonia finirono nelle mani dei tedeschi altri due milioni di ebrei.


Dopo ogni conquista territoriale, con l'aumento della popolazione ebrea sotto il potere nazista, cresceva anche il fanatismo razzista dei capi del Reich.


I nazisti fecero una vera e propria pulizia organizzata del ghetto, spedendone gli abitanti nei campi di concentramento. Ma prima di morire i prigionieri dovevano prestare servizio al reich. Alla fine del 1940 il professore Karl Krauch, direttore generale del gruppo chimico industriale “IG Farben”, puntò la sua attenzione sulla piccola cittadina di Auschwitz (nome polacco Oswiecim) nell'Alta Slesia. Vicino c'erano miniere di carbone, giacimenti di pietra calcarea, sorgenti d'acqua e un'ottima ferrovia. La città fu ritenuta il luogo ideale per una grossa produzione chimica. Nel dicembre 1940 fu deciso di costruirvi uno stabilimento per la produzione di gomma sintetica, di metanolo (necessario per il carburante aereo e l'esplosivo), di carburo e di isoottano (componente della benzina aeronautica).


Nella fabbrica “IG Farben” lavoravano i detenuti del lager. I turni duravano fino a sedici ore. Persino le persone sane morivano in poco tempo. Il primo carico di metanolo lasciò Auschwitz nell'ottobre del 1943, per quell'evento fu organizzata una festa, a cui i dirigenti dell'azienda “IG Farben” invitarono il comandante del lager Rudolf Höss. Karl Krauch ricevette la croce di cavaliere per il merito militare.
Ma il comandante del lager non si dimenticò mai il suo dovere principale. Ad Auschwitz arrivavano a flusso continuo convogli di ebrei, che venivano eliminati subito.


I medici del lager facevano un'iniezione letale di fenolo, che andava direttamente al cuore.
Facevano una specie di gara: chi faceva più iniezioni. Gli stacanovisti riuscivano a ucciderne tre al minuto.


E il vice comandante di Oswiencim, l'Hauptsturmfuhrer delle SS Karl Fritsch, adottò lo “ziklon B” per eliminare i detenuti. Il preparato era conservato sotto forma di cristalli, veniva usato per la disinfezione. Lo “Ziklon B” è acido cianidrico, bolle ed evapora a temperatura ambiente, la sua inalazione porta alla morte.


Seicento prigionieri di guerra sovietici e duecentocinquanta pazienti dell'ospedale del lager furono cacciati in un seminterrato. Una SS indossò la maschera anti-gas, gettò a terra una manciata di cristalli di “ziklon B” e uscì, chiudendo a chiave la porta. Non tutti morirono, dovette gettare dentro un'altra porzione di cristalli.


L'esperimento fu considerato ben riuscito. Spingevano le persone dai convogli direttamente nelle camere a gas, e poi i cadaveri venivano bruciati nello stesso luogo, nei crematori del lager.


“Il comandante di Oswiecim, l'Obersturmbannführer delle SS Rudolf Höss, fece arrivare un'auto scapottata a prenderci – ricordò un ospite da Berlino. - Partimmo verso la nostra destinazione, e vidi dall'auto il grande edificio del crematorio. Come una fabbrica, con la ciminiera. Höss mi condusse a una grande fossa di 150, forse 180, metri di lunghezza. C'erano una grata, enormi barre di metallo. E lì sopra bruciavano i cadaveri. Höss disse con orgoglio: “Questa sì che è produttività!”
Quando le camere a gas iniziarono a funzionare, i nazisti erano felici: capirono che avrebbero portato a termine il compito che avevano ricevuto.


Aiutanti volontari
Insieme agli ebrei morivano anche i prigionieri di guerra sovietici. Dopo la guerra nel territorio di Oswiecim furono trovate le spaventose memorie dell'ebreo polacco Leib Langfus: “Cacciavano nelle baracche i prigionieri di guerra sovietici, che come cibo ricevevano solo una patata, un po' di zuppa senza pane, e lavoravano giorni interi sotto il controllo delle SS. Quelli che perdevano le forze venivano buttati in una grande buca-latrina, coperta con delle tavole bucherellate, dove faceva i bisogni tutta la popolazione del lager. Ogni notte le SS entravano in un blocco a caso e con dei bastoni pestavano a morte i prigionieri russi emaciati e sfiniti. Tutti loro erano così indeboliti che non reagivano in alcun modo. La mattina i morti venivano trascinati via. Non appena il blocco si svuotava, vi portavano prigionieri freschi.”


Praticamente tutti i lager che servivano a questa eliminazione furono costruiti nel territorio della Polonia. Forse perché i tedeschi sapevano che la maggior parte dei polacchi non si sarebbero messi a protestare? Centinaia di migliaia di persone vivevano vicino ai lager della morte. Quando guardavano in quella direzione, vedevano delle nuvole di fumo interminabili che salivano in cielo. Le case dei vicini si svuotavano. Loro stavano lì a osservare gli ebrei mandati a morire.


Cosa sentivano i testimoni del terrore? Con piccole eccezioni, rimasero indifferenti a ciò che stava accadendo: “Gli ebrei stessi sono i colpevoli di tutto.”


È abitudine ritenere che gli abitanti dei territori occupati aiutassero i tedeschi per forza, salvando così se stessi. No, spesso lo facevano senza costrizione, per propria buona volontà.


Ma come mai fu possibile un tale massacro? Davanti agli occhi del mondo intero? Oppure il mondo non sospettò di nulla?


Non posso crederci”


L'eliminazione pianificata degli ebrei avvenne su tutte le terre occupate e le informazioni arrivavano tramite vari canali sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, ma i racconti sui campi di concentramento venivano percepiti come una grande esagerazione: una cosa del genere non può succedere! Nel 1943 un rifugiato dalla Germania riuscì a incontrare un membro della Corte Suprema degli USA, tale Felix Frankfurter, e informò l'eminente giurista dell'eliminazione degli ebrei. Dopo averlo ascoltato, Felix Frankfurter, ebreo lui stesso, con aria scettica scosse la testa e disse: “Vedo che per lei tutto ciò è la verità. Ma io non riesco proprio a crederci.”


Ma a Londra sapevano dei lager. Ecco qui la trascrizione di una riunione del governo.


“Il 14 dicembre 1942 il consiglio dei ministri ha discusso dell'eliminazione su vasta scala degli ebrei in Polonia. Il Ministro degli Esteri Anthony Eden ha comunicato che non ci sono informazioni precise su cosa ne facciano, ma è risaputo che gli ebrei, provenienti da altre nazioni occupate, vengono trasportati in Polonia.
Il primo ministro Winston Churchill domandò: “C'è qualche conferma dell'eliminazione di massa? Come avviene?”
Eden rispose: “Non ci sono testimoni oculari, ma solo indiretti. E' probabile che sia la verità, ma non posso dire nulla con precisione a proposito dei metodi. So che da ogni luogo gli ebrei vengono portati in Polonia, perciò c'è un obiettivo.”


Nel marzo del 1943 il ministro degli esteri britannico si recò negli Stati Uniti. I rappresentanti delle organizzazioni ebraiche pregarono Eden di proporre (a nome degli alleati) a Hitler che permettesse agli ebrei di lasciare l'Europa occupata dai tedeschi.


Eden rifiutò la proposta ritenendola “fantasiosa”. Gli alleati non volevano rivolgersi a Hitler con una tale proposta. Se per caso avesse accettato, allora gli alleati si sarebbero dovuti sobbarcare la cura di qualche milione di persone? Il ministro rifiutò anche la proposta di rifornire con provviste gli ebrei che stavano morendo di fame. Spiegò ai diplomatici americani: cosa accadrebbe se Hitler prendesse in parola gli alleati? Dove troveremmo tante navi da trasportare gli ebrei o le provviste per loro?


Dopo la salita al potere di Hitler gli ebrei dovettero scappare dalla Germania, ma non c'era un posto dove andare. Secondo alcune voci, i sionisti si sarebbero accordati in segreto con i nazisti, affinché questi scatenassero l'antisemitismo e così tutti gli ebrei scappassero in Palestina.


La realtà era che gli ebrei non venivano accettati da nessuna parte. Certo, avrebbero potuto essere salvi in Palestina, che era governata dall'Inghilterra. Ma a Londra avevano scommesso sugli arabi ed erano contrari alla colonizzazione della Palestina da parte degli ebrei.


Nel 1939 il governo britannico prese una decisione fatale: nei cinque anni seguenti non più di 75 mila ebrei avrebbero ricevuto il diritto di trasferirsi nella patria storica. Fu la condanna a morte degli ebrei rimasti in Europa, lasciati in pasto ai nazisti.


Il 25 marzo 1938, subito dopo l'annessione dell'Austria al Reich, il presidente degli USA Franklin Delano Roosevelt propose di costituire un comitato internazionale che si occupasse del destino dei rifugiati dalla Germania e dall'Austria. Il 6 luglio i delegati di 32 paesi si riunirono all'hotel Royal nella cittadina turistica francese di Evyan. Tra tutti, nemmeno una nazione voleva accogliere gli ebrei. Se il governo tedesco avesse voluto veramente sbarazzarsi della popolazione ebrea sul suo territorio, non avrebbe imposto una tassa così alta agli emigranti. Ma a Berlino non volevano lasciarsi sfuggire la possibilità di rapinarli. C'era gente che non riusciva a pagare e rimase, destinata a morire...
Roosevelt poteva salvare più ebrei? Nel 1938 modificò la legge sull'immigrazione, eliminando le quote restrittive. 27.370 rifugiati dalla Germania, per la maggior parte ebrei, furono accolti negli Stati Uniti. Ma la maggioranza repubblicana al Congresso non permise di portare nel paese 20 mila bambini ebrei. Gli americani non volevano rimanere coinvolti nella nuova guerra europea, ritenevano che non li riguardasse. Negli anni '30 il Congresso per ben tre volte adottò delle leggi che avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti più distanti dalla guerra in Europa.


Gli ebrei tentavano di fuggire nei paesi confinanti. La Francia (fino all'occupazione avvenuta nel 1940) li accettò, la Svizzera chiuse il confine. Gli svizzeri dicevano “Das Boot ist Voll”, ovvero “La nave è piena”, facendoli tornare indietro sul confine, condannandoli così a morte sicura.
La Svizzera rifiutò l'accesso a circa trentamila rifugiati.
Il Cantone Turgau si trova sul lato svizzero del lago di Costanza, che separa il paese dalla Germania. Il lago è esteso, ma d'inverno i rifugiati cercavano di attraversarlo, camminando sul ghiaccio, per raggiungere la Svizzera. La polizia li mandava indietro e loro finivano nelle mani della Gestapo.


Hitler temeva la reazione dell'Occidente, ma non accadde nulla. Il mondo tacque. E il Fuhrer si convinse che nessuno gli avrebbe impedito di distruggere gli ebrei.


Pranzo domenicale ad Auschwitz


Per due anni la SS Oscar Groening prestò servizio ad Auschwitz. Ma solo dopo molti anni acconsentì di raccontare il suo lavoro lì:

“Arrivò un nuovo convoglio. Ero di turno. Portarono via gli ebrei. D'un tratto sentii un grido di bambino. Tra i vestiti fu trovato un bambino, la madre l'aveva abbandonato, sapendo che le donne con i propri lattanti venivano spedite subito nelle camere a gas. Una delle guardie afferrò il bimbo per una gamba e gli sbatté la testa contro la cabina del camion, continuando fino a quando morì.”

Negli anni della guerra spedirono più di un milione di ebrei ad Auschwitz. 900 mila furono uccisi subito, 200 mila furono tenuti per lavorare. C'erano anche 140 mila polacchi, 20 mila zingari, 10 mila prigionieri di guerra sovietici e altrettanti prigionieri di guerra di altre nazioni.

Arrivati nel lager i prigionieri erano obbligati a lasciare tutti gli effetti personali e il denaro, se gliene era ancora rimasto. Il compito di Oskar Groening era quello di smistare le monete e le banconote di vari paesi, contarle e consegnarle all'apparato centrale dell'amministrazione-economato centrale delle SS a Berlino.

Oskar Groening vedeva coi suoi occhi le persone nude che venivano cacciate nelle camere a gas e il gas che veniva acceso. Le sentiva gridare mentre morivano, vedeva i corpi senza vita che venivano trascinati nel crematorio. Era curioso, andò a guardare la gente bruciare.

Dopo la guerra gli domandarono:
“Si era abituato ad Auschwitz?”
“Lì c'era un bellissimo negozio, dove si potevano comprare senza tessera gli ossi per la zuppa.”

Le SS venivano sfamate molto bene. Ricorda così uno degli ufficiali del lager: “Oggi c'è un meraviglioso pranzo domenicale: zuppa di pomodoro, mezzo pollo con patate e cavolo cappuccio rosso, un delizioso gelato alla vaniglia.”

Per il personale delle SS nel lager c'erano un grande stadio, un teatro, una piscina, un'orchestra sinfonica e un bordello.

Indifferenza consapevole

Il dottor Kurt Gerschtein cercò di comunicare agli alleati ciò che stava accadendo nei campi di concentramento. A Gerschtein furono affidate la fornitura dello “Zyklon B” e la disinfezione dei vestiti, raccolti dopo l'uccisione degli ebrei, affinché potessero essere riutilizzati. Rischiando la vita, l'uomo si rivolse al segretario della missione svedese, gli raccontò di come venivano uccisi gli ebrei nelle camere a gas e con le lacrime agli occhi lo pregò di far avere questa informazione agli alleati.

Non fu l'unico a informare gli alleati delle uccisioni di massa. Ma ai servizi segreti americani non interessavano i materiali sulla situazione nei lager nazisti, mentre la stampa sia britannica che americana praticamente non dava nessuna informazione sui crimini di massa perpetrati dai nazisti nei territori occupati.

Gli altolocati politici occidentali, che sapevano qualcosa, non parlarono.
La propaganda hitleriana ripeteva: la Germania combatte contro gli ebrei. Per questo esisteva una specie di patto: stare zitti a proposito del loro destino nei territori occupati, affinché nessuno avesse l'impressione che le Nazioni Unite volessero battersi col solo obiettivo di salvare loro. Apparve una certa forma di indifferenza intellettuale o emozionale. Questa insensibilità era consapevole.


Traduzione dal russo di Elena Zanette
Articolo originale Равнодушие и предательство