L'universo intuitivo d'Isabelle Merlet
(professione colorista)
da EO le blog
22 aprile 2011
Fumetto, illustrazione, disegno, manifesto, animazione... tutto
ciò che coinvolge l'immagine disegnata ci interessa.
Laureline Mattiussi. L île au poulailler. Glénat |
Se gli sceneggiatori di fumetto sono ignorati dai premi e dai
media, il o la colorista viene dimenticato(a) ancora di più.
Il colore è considerato un argomento di vendita (è quasi
impossibile oggi pubblicare un fumetto in bianco e nero, troppo
complicato fare foto in bianco e nero, impossibile avere un
televisore in bianco e nero), tuttavia è considerato secondario
nell'espressione del fumetto.
Ora, nel nostro mondo che guarda tutto con gli occhi della tecnica
e vorrebbe applicare questo delirio di maestria all'arte, il colore
rimane uno spazio intuitivo che sfugge all'analisi. In un'epoca che
nega la dimensione soggettiva dell'essere umano, la vuole sminuire
con valutazioni e, instaurando una competizione generalizzata tra
tutti, diffonde il fantasma dell'equivalenza di ogni individuo, mi è
sembrato interessante prendere in esame un lavoro che va oltre
qualsiasi paragone.
Isabelle Merlet ha parecchi talenti, taluni ancora da svelare.
Dopo aver colorato più d'una cinquantina di album, ci parla di
questa singolare forma d'espressione, che consiste nel dare una nuova
dimensione a un universo già costituito, amplificandolo senza
tradirlo. Un'arte che combina il rispetto e l'audacia, esprime il suo
stile in armonia con gli stili di lavori molto differenti. Nelle sue
realizzazioni, tutte risultato di tatto e invenzione, Isabelle ci
affascina. Sebbene vengano solo dopo, i suoi colori risplendono come
una sorgente.
"Sentirsi a proprio agio con il colore non è
una cosa che s'impara"
JEAN-LUC COUDRAY: Tu eserciti una professione rara, quella di
colorista di fumetti, dal 1990, e a tempo pieno dal 2006. Prima
questo lavoro conviveva, nella tua vita, con altre attività
artistiche. Perché questa attività ha preso il sopravvento?
ISABELLE MERLET: Dopo gli studi passavo da un'attività a
all'altra, da un progetto all'altro con molta voglia di fare, senza
preoccuparmi della loro redditività. Ma nel 2006 ho avuto bisogno di
denaro da una banca, e mi sono resa conto che avevo bisogno,
provvisoriamente, di concentrarmi solo su un'attività.
Specializzandomi in scultura o
grafica, mi sembrava di non avere molte prospettive
d'evoluzione. Ho scelto il colore, dove avevo una buona rete di
conoscenze. Sapevo che avrei potuto trarne piacere, malgrado la sua
ripetitività, e continuare a esplorare.
J.-L. C.: La professione di colorista di fumetti, come attività
principale, è così rara? Conosci altre persone che fanno questo
lavoro? Le frequenti?
I. M.: Ne conosco alcune, ma non ho occasione di vederle. Ognuno
lavora nel suo angolino e sono rari i festival che invitano i
coloristi. Non conosco coloristi che fanno questo lavoro
regolarmente, diciamo almeno due album all'anno.
"Si tratta di un'arte minore per cui non bisogna
aspettarsi alcun riconoscimento"
J.-L. C.: Sembrerebbe un'arte che contiene un paradosso. Da un
lato è molto specializzata. Dall'altro invece richiede un'apertura e
una relazione verso stili grafici molto differenti. Che ne pensi?
I. M.: Sentirsi a
proprio agio con il colore non è una cosa che s'impara. Ma per
essere colorista bisogna soprattutto imparare a leggere stili di
rappresentazione molto diversi, con la loro coerenza, incoerenza, con
le loro carenze, con il loro virtuosismo, etc. Comprendere come
funziona senza giudicare, e saper usare questa comprensione nel
miglior modo possibile. È grazie alla lettura quotidiana del disegno
che si elabora questa abilità.
Il colore del fumetto non
concerne solo il disegno, si deve anche progettare legandolo alla
narrazione. Se è per dare un inutile riempitivo alla storia oppure
appesantire le immagini, tanto vale andare in pensione! La politica
attuale di colorare tutto spinge molti a lavorare il colore senza
porsi il problema della sua pertinenza.
Gli autori abbandonano
questa parte della creazione ai coloristi, dicendo a se stessi che
sono loro, i coloristi, gli specialisti!
Eppure il colore non è
insegnato da nessuna parte, non esiste nessun'opera di riferimento
sull'argomento e nessuno è capace di fare una critica fondata.
Il paradosso è piuttosto
questo, direi... in ogni caso, la cosa certa è che si tratta di
un'arte minore, per cui non bisogna aspettarsi nessun riconoscimento.
J.-L. C.: Si potrebbe pensare il colore come la
parte emotiva, l'atmosfera, nel fumetto. Allo stesso tempo, esso
potrebbe avere il ruolo di accrescere la leggibilità, la luce? In
poche parole, una parte soggettiva, una parte oggettiva. Si potrebbe
paragonare ciò al ruolo della musica in un film?
I. M.: Sì, se non che la
musica di un film esiste senza il film, mentre il colore di un album
non può esistere senza l'album. È perché, da un punto di vista
giuridico, i coloristi non sono considerati come autori. Si ritiene,
che il loro apporto all'opera non si può dissociare dall'opera
preesistente in bianco e nero. È un fatto indiscutibile, il colore
senza il disegno non può esistere. Però non si pubblica mai l'album
in bianco e nero, allora come si fa a sapere ciò che il colore porta
all'opera? Bisognerebbe poter paragonare le due letture, con e senza
colore.
"Si rimane troppo spesso dell'idea che la
ritrascrizione di una realtà passi attraverso un certo realismo"
J.-L. C.: Dici di aver rimpiazzato la concezione
“manierista” del tuo esordio, con una volontà secondo cui il
colore serve tutt'al più alla narrazione. Potresti dirci come fai a
mettere in pratica questa continuità, questo svolgimento?
I. M.: Quando
parlo di manierismo, penso a quello scoglio dell'aggiungere forme
completando il disegno. Come da
tradizione, facevo
molti effetti, velature, sfumature, trasparenze, riflessi, etc. In
definitiva ci si rinchiude nell'immagine perdendo di vista
l'essenziale: accompagnare il racconto. Ho preso coscienza di questo
difetto e ho tentato di correggerlo.
Aggiungere precisione o
realismo al disegno è un tranello in cui cadono molti. Si ha il
riflesso d'intervenire sull'immagine come se si trattasse di una foto
da ritoccare, è idiota! Ora, provo a valorizzare gli elementi
presenti nel disegno, a farli risuonare tra loro senza toccare nulla.
Mi concentro su narrazione, ritmo, sequenze, momenti chiave.
J.-L. C.: Questa volontà narrativa entra in
conflitto con certe scelte estetiche?
I. M.: Condividere
la propria visione del colore sottintende adottare misure radicali.
Il conflitto nasce quando la richiesta di un autore o di un editore
si concentra proprio su una resa “pseudo realista”. Quando si è
ottenebrati dal colore dei vestiti o della pelle dei personaggi, si
perde di vista l'impressione generale della pagina. E certamente è
l'impressione generale che bisogna privilegiare, i dettagli sono
percepiti raramente durante la lettura di un fumetto.
Prendere la decisione di
tagliare la realtà per essere più vicini alla verità, non è un
passo facile da spiegare. Ma i colori classici di un tramonto non
daranno per forza la sensazione del sole che tramonta, mentre dei
colori, che non hanno niente a che vedere con il reale, possono farci
provare più esattamente delle emozioni reali. Troppo spesso si
rimane dell'idea che la ritrascrizione di una realtà passi
attraverso un certo realismo, tale idea è falsa.
Il reale passa per mezzo
di qualcosa di vivo.
A volte comincio dal fare quello che ci si aspetta da me con l'idea di far accettare ciò che ho
in mente.
È tortuoso, ma ci si
arriva.
J.-L. C.: Sembri presentare la tua colorazione
come una valorizzazione del lavoro del fumettista disegnatore, e se
fosse l'inverso? Che è il disegno invece a valorizzare i tuoi
colori?
I. M.: Non
ci ho mai riflettuto, dovresti essere più preciso su cosa intendi!
Vuoi dire che sono io che
faccio il lavoro più appariscente, che colpisce di più l'occhio, e
che mi servo del disegno degli altri per mostrarlo? :-)
"Essere messi a confronto con lo spazio
dell'altro limita le possibilità, ma ciò permette altresì di avere
una posizione molto chiara"
J.-L. C.: C'è uno stile “Isabelle Merlet”
malgrado la varietà di lavori grafici che passano sotto il tuo
pennello (elettronico). Come spiegarlo?
I. M.: Non
posso spiegarlo... tutti fanno un lavoro riconoscibile, mi sembra. La
tavolozza e le scelte di luce o di contrasto di colori tornano
spesso, come in un pittore. È la stessa cosa nel disegno, si cambia
lo strumento, il formato o lo spazio vitale, ma lo sguardo non
cambia.
J.-L. C.: Cerchi delle dissonanze, delle
disarmonie, per rompere con la tentazione di un bello troppo
confortevole?
I. M.: Sì,
altrimenti si resta nella graziosa gamma di colori delle riviste tipo
Marie
Claire Décoration.
Ma, a meno di farlo decisamente apposta, è raro non essere seducenti
col colore, è davvero un campo di seduzione. Con il tratto e il nero
si può trovare una più grande originalità. Non so, cosa ne pensi?
J.-L. C.: Prima di colorare, c'è il lavoro che
consiste nel contornare degli spazi, di delimitarli. C'è qualcosa di
simbolico nel creare spazi, nel delimitarli, nel riempirli?
I. M.: La
sensazione rassicurante di non fluttuare nello spazio tempo, può
essere!
J.-L. C.: Occupare lo spazio altrui è una maniera
di testare altri punti di vista (come un'anima in un corpo altro dal
proprio)?
I. M.: Non
so... credo piuttosto che sia il bisogno di creare su qualcosa di
preesistente. Io me lo spiego con la condizione di non essere la
creatrice del progetto, ma piuttosto di sostenerlo o forse di
trasformarlo (un po'). Essere messi a confronto con il lavoro
dell'altro, limita le possibilità, ma ciò permette anche di avere
una posizione molto chiara. Le scelte sono più semplici. Il disegno
finale nel complesso è giudicato meno rispetto al proprio intervento
singolo, dunque lo si può apprezzare meglio. In questo modo, è
possible staccarsene anche meglio e sviscerare tutte le sue
possibilità narrative.
J.-L. C.: I coloristi sono ignorati di più degli
sceneggiatori nel fumetto? C'è qualcosa di rassicurante
nell'esercitare una professione di cui non si parla? O è una
frustrazione?
I. M.: Tutt'e
due! Frustrazione e sicurezza coesistono.
Non si parla dei
coloristi perché, mettendo troppo in risalto il loro lavoro, si
complicherebbero i rapporti economici con gli editori. Gli autori
talvolta restituiscono l'1% dei loro diritti d'autore, ma non sono
obbligati a farlo. Guadagnano talmente poco che non sono ottimista su
come la situazione potrebbe evolversi...
Quanto agli
sceneggiatori, può essere che siano ignorati perché il loro
“savoir-faire” non è così spettacolare come quello dei
disegnatori, non si saprebbe cosa dir loro.
La scrittura è un
meccanismo troppo misterioso per interrogarsi sulle sue competenze.
Nella scrittura si
progredisce come si fa nel disegno o nel colore? Cos'è che motiva la
scrittura di una sceneggiatura?
J.-L. C.: Riesci a esprimerti completamente nel
tuo lavoro?
I. M.: La
colorista si esprime completamente, ma siccome non sono solo
colorista, il mio lavoro non è un'espressione totale. Sviluppare dei
progetti personali richiede un'energia che non ho più, dopo due mesi
di lavoro su un album. Tanto più che quindici giorni dopo bisogna
riprendere a lavorare su un altro!
Sono frustrata per la
mancanza di tempo, sì. Ma questi ritmi non dureranno in eterno.
J.-L. C.: Su quale supporto lavori? Schermo,
tavoletta grafica? Hai già colorato direttamente sopra un “blu”
o un originale a pennello?
I. M.: Ho
un Mac 21 pollici e una tavoletta Wacom A5. Utilizzo del materiale
vecchio, ma non ho bisogno di altro. L'informatica non m'interessa e,
al di fuori del mio lavoro su Photoshop, non so fare niente con il
computer. Non ho né sito, né blog.
Fino al 2005 pensavo di
non poter far niente al di fuori dello sfumato con l'acquerello. Ma
siccome sapevo cosa mi serviva, ho imparato in quindici giorni a
usare Photoshop. Bisogna dire che ho avuto un professore molto bravo,
il mio compagno Jean-Jacques Rouger (autore e colorista). Si occupa
della gestione dei dati e del materiale. Se lui non è qui con me e
c'è un guasto, io divento una disoccupata tecnologica.
J.-L. C.: Hai già colorato in bianco e nero?
I. M.: Sì,
per l'album di Ruppert e Mulot, Sol
Carrelus à l'Association.
In un primo momento loro volevano il colore, ma io ho proposto loro
l'idea del bianco e nero. La loro storia avviene in un castello, in
una serata mascherata completamente fuori di testa, che finisce male.
Ho pensato al cinema
espressionista e ho fatto qualche pagina, lavorando la luce e la
profondità di campo, con un lavoro di disegno a inchiostro
preliminare per portare un po' di fragilità e cancellare l'effetto
piatto dell'elaborazione al computer. Non c'era un budget e alla fine
furono Florent e Jérome che si incaricarono di fare il disegno a
inchiostro, io ho fatto la parte “al computer”. È stato molto
più interessante della maggior parte delle colorazioni classiche che
ho potuto fare. È questo tipo di cose che mi diverte, un lavoro di
ricerca, non per forza in quadricromia.
J.-L. C.: Utilizzi degli “effetti” di
Photoshop come i “falsi effetti acquerello”, per esempio?
I. M.: No,
nessun effetto Photoshop, né di colore né di materia.
J.-L. C.: Ci sono certi stili grafici, rispetto ad
altri, che tu preferisci colorare? Rifiuteresti certi album?
I. M.:
Sì, certo, ho delle preferenze, ma non sono tanto grafiche, quanto
narrative. Anche se non mi piace un disegno, se la storia mi piace,
faccio il libro. Non vale, allo stesso modo, il contrario. Ciò
premesso, un disegno storico-realistico inchiostrato male, anche se
con una bella storia, oggi io lo rifiuto senza pensarci!
Pascal Rabaté. Un petit rien tout neuf avec un ventre jaune. Futuropolis |
"La leggibilità è il
primo lavoro, l'equilibrio e l'armonia sono il secondo"
J.-L. C.: Tu sei anche disegnatrice. Questa
dimensione ti aiuta a comprendere meglio il disegno degli altri?
I. M.: Sì,
sicuramente.
J.-L. C.: Si rimane delusi dall'impressione del
libro?
I. M.: La
perdita è obbligatoria, poiché si passa da colori percepiti
mediante una proiezione luminosa a dei colori ritrascritti con gli
inchiostri sulla carta.
Ma se il capo progetto fa
bene il suo lavoro, l'essenziale dev'essere conservato.
Ciò che conta è
l'aspetto d'insieme delle relazioni tra i colori, anche se è sempre
frustrante che tutte le micro sottigliezze spariscano e che nessuno
veda mai quanto ho lavorato!
J.-L. C.: I disegnatori ti ringraziano per il tuo
lavoro? Ricevi altrettanti ringraziamenti da parte degli
sceneggiatori? Degli editori?
I. M.: Sì,
i disegnatori mi ringraziano, anch'io ho diritto a dei regali. Gli
sceneggiatori (che non sono disegnatori) non dicono niente la maggior
parte del tempo. Recentemente uno sceneggiatore del cinema voleva che
facessi delle immagini “da cinema” per un album. Il disegno era
fantastico, ma al cinema non c'è del tratto nero intorno alle
persone e alle cose, hai notato!? Allora, siccome non volevo
innervosirmi, ho lavorato con il disegnatore senza tener conto dei
suoi commenti. Quando lo sceneggiatore in questione ha ricevuto
l'anticipo di contratto, in cui gli chiedevo di restituirmi lo 0,5%
dei suoi diritti d'autore, ha detto: “Non va, no! Perchè lo dovrei
fare?”
Ma nell'insieme non mi
lamento, ho buoni rapporti con gli autori.
Quanto agli editori,
dipende dalle persone, certi seguono il mio lavoro, altri non dicono
nulla. Può essere che, una volta ingaggiata, si fidino di me... ho
voglia di crederci!
J.-L. C.: Ci sono alcuni disegnatori che tu sogni
di colorare?
I. M.: Sì,
ce ne sono molti. Tra quelli che non sono più tra noi, ma di cui
rifarei molto volentieri i colori di un album, ci sono Hergé
e Pratt.
Ci sono quelli che non fanno più fumetti, come Sempé, di cui sogno
di colorare un disegno (per una copertina del New
Yorker,
per esempio). E poi ci sono tutti quelli che non hanno bisogno di me,
come Tardi, Moebius, De Crécy
o Gipi...
Gipi. Notes pour une histoire de guerre. Actes Sud BD. |
J.-L. C.: A livello puramente tecnico, utilizzi,
immagino io, il “secchiello” per riempire delle aree chiuse. Ma
dopo? Lo strumento pennello, lo strumento matita? Puoi spiegarci?
I. M.: Utilizzo
principalmente tre strumenti: matita, secchiello e gomma! Poi mi
servo molto delle maschere e dei modi di fusione dei livelli. Faccio
il meno possibile di sfumato ed evito tutti i filtri artistici.
Grossomodo, utilizzo l'1% delle possibilità del software!
Per iniziare, seleziono
le zone a matita su un nuovo livello, separato dal tratto originale.
Lavoro su un file in quadricromia a 300 DPI.
Una volta fatta questa suddivisione in zone (è il lavoro più
fastidioso, se ne occupa Jean-Jacques quando io non ho abbastanza
tempo), applico il colore per tappe, e ogni due interventi mi fermo,
per prendere le distanze da quello che ho fatto. Infatti è solo dopo
qualche giorno che ci si rende conto di ciò che non funziona.
La leggibilità è il primo lavoro,
l'equilibrio e l'armonia sono il secondo, la dissonanza e la
regolazione del ritmo si fanno per ultimi. Dopodiché si fa una
rifinitura per correggere l'insieme: tutti i piccoli dettagli che si
son lasciati passare e che l'autore punta col dito.
Nell'insieme è tanto lungo quanto il
lavoro tradizionale, a volte di più.
Sui blu, ci andrei più cauta, per non
dover rifare tutto. Non mi porrei troppe domande!
Ora che non sono più limitata
tecnicamente, faccio più ricerca. Ciò permette di non stancarsi
troppo.
Traduzione dal francese di Elena Zanette
Articolo originale: L’univers intuitif d’Isabelle Merlet (profession : coloriste)
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